L’evangelista Luca (11, 1-4) riferisce che il Padre Nostro fu insegnato da Gesù ai suoi discepoli quando uno di loro gli chiese: «Signore, insegnaci a pregare». Matteo (6, 5-15; 7, 7-11) ci dà una versione più completa del Padre Nostro, insieme ad altre istruzioni del Signore sulla preghiera. In realtà non solo in questi versetti, ma in innumerevoli altre occasioni il Signore, attraverso la Scritture, ci insegna a pregare. Nella Bibbia, sia nel Nuovo sia nell’Antico Testamento, troviamo infatti una grandissima quantità di indicazioni sulle forme e i contenuti, sui tempi, i gesti, le formule, le finalità e gli effetti della preghiera.
I modi della preghiera liturgica e delle nostre preghiere personali, che abbiamo ricevuto e appreso dalla Tradizione, sono già in gran parte attestati nelle Scritture. Anche i profeti dell’Antico Testamento, come gli apostoli, i primi cristiani e lo stesso Cristo pregavano in ginocchio (Daniele 6, 11; Luca 22, 41; Atti 20, 36 e 21, 5), prostrandosi con la faccia a terra (1 Re [secondo il titolo tradizionale 3 Re] 18, 42; 2 Cronache 20, 18; Giuditta 9, 1; Matteo 26, 29; Marco 14, 39), con le mani alzate (1 Re 8, 55; Salmi 140, 2; 1 Timoteo 2, 8). Quest’ultimo è un gesto oggi meno usato e quasi solo dai sacerdoti che celebrano la liturgia, ma che un tempo fu il gesto per eccellenza della preghiera e lo conosciamo molto bene perché caratterizza i santi e soprattutto la Madre di Dio in molte icone. Dalle Scritture sappiamo che fin dall’epoca dei Patriarchi (Genesi 20, 7 e 17; 25, 21 etc.) i credenti facevano preghiere di intercessione per i loro congiunti, che si pregava anche con il canto – basti pensare ai Salmi di David, accompagnati con la cetra e l’arpa – una pratica questa anche degli apostoli e dei primi cristiani (Atti 16, 25; Efesini 5, 19), che la preghiera era spesso unita al digiuno (Neemia 1, 4; Luca 2, 37; Atti 13, 3; Marco 9, 29).
Nella Bibbia troviamo inoltre indicazioni sui tempi della preghiera. Il profeta Daniele (6, 11) «si metteva in ginocchio e lodava il suo Dio tre volte al giorno». Il re David e l’autore del lungo Salmo 118 pregavano al mattino (Salmo 5, 4), vegliando (62, 7) o alzandosi (118, 62) nel corso della notte, sette volte al giorno (118, 164). Sette sono ancora le principali ore canoniche dei monaci. Noi semplici fedeli dovremmo sforzarci di pregare almeno al mattino e alla sera.
Dalle Scritture, in particolare dal Libro dei Salmi, che resta per la Chiesa il più importante libro di preghiere, vengono anche le formule della preghiera liturgica e di molte delle preghiere che abbiamo memorizzato e che recitiamo più o meno quotidianamente. Insomma, le Scritture sono sempre state il manuale di preghiera dei cristiani e dovrebbero continuare a esserlo anche per noi.Finora mi sono riferito però soltanto ad aspetti più o meno esteriori della preghiera, mentre ancora più importante è la sua dimensione interiore. Formule, rispetto dei tempi, gesti sono di grande aiuto ma non l’essenza della preghiera, che è, o meglio dovrebbe essere, uno stato interiore dell’uomo. I gesti hanno un valore simbolico (le braccia alzate esprimono la tensione dell’anima verso il cielo, ci inchiniamo davanti a Cristo come davanti a un re) e possono aiutare la concentrazione dello spirito. Ma appunto è soprattutto con lo spirito che si deve pregare, e non solo esteriormente con il corpo e la voce. Quando preghiamo ad alta voce o ci inchiniamo verso un’icona, ci rivolgiamo a Dio come se fosse fuori di noi. Nello stesso tempo dovremmo incontrare Dio dentro di noi: nel “cuore”, laddove risiede lo spirito dell’uomo (come lo chiama san Paolo) o il suo intelletto (come spesso lo chiamano i Padri), cioè la parte più alta e nobile della creatura, fatta “a immagine” (cfr. Genesi 1, 26) di Dio. Come insegnano le Scritture e, concordi, tutti i Santi Padri, là lo spirito dell’uomo può incontrare, grazie al suo amore sincero, ai sacramenti e appunto alla preghiera lo Spirito di Dio e unirsi con lui.
Per questo motivo la preghiera personale, interiore e in solitudine, non deve essere trascurata. Come raccontano i Vangeli (per esempio in Matteo 14, 23; Marco 1, 35; Luca 5, 16; 9, 18) spesso Gesù si ritirava a pregare in solitudine, e lui stesso ci ha raccomandato: “Quando preghi, entra nella tua camera, e avendo chiuso la porta pregherai il Padre tuo che è nel segreto” (Matteo 6, 7). Il Signore ci sta mettendo qui in guardia dall’ipocrisia, dalla preghiera fatta con ostentazione e superbia, ma questo suo detto può essere inteso anche come un invito a entrare nella nostra interiorità e a chiudere la porta alle distrazioni del mondo.
Quando lo spirito dell’uomo comunica con lo Spirito di Dio allora le Scritture parlano della “preghiera in Spirito” o “nello Spirito” (en pneunati: Efesini 6, 18; Giuda 20), la preghiera che ha superato le determinazioni di spazio, di tempo e di materia. Alla Samaritana che diceva che i suoi correligionari pregavano Dio sul monte Garizim e non a Gerusalemme come i giudei, Gesù ha risposto: “Viene l’ora in cui né in questo monte, né a Gerusalemme adorerete il Padre, […] l’ora, ed è adesso, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito (en pneumati) e Verità. […] Dio è spirito e chi lo adora deve adorarlo in Spirito e Verità” (Giovanni 4, 21-24).
“In Spirito” non significa “spiritualmente” in senso generico, ma proprio “nello Spirito Santo”. Poiché lo Spirito Santo è uno e, come dice la Divina Liturgia, “è ovunque e tutto riempie”, chi prega “nello Spirito” si unisce non solo a Dio ma al mondo intero, e in particolare a coloro che come lui sono nello Spirito. Quando preghiamo per i nostri amici e parenti, anche quelli morti, non ci limitiamo dunque a ricordarli nella nostra preghiera ma ci uniamo a loro. La preghiera è dunque ciò che fa una la Santa Chiesa e la rende il “corpo di Cristo” (vedi in particolare 1 Corinzi, 12), l’abitazione terrena dello Spirito Santo.
Il Padre Nostro, suddiviso com’è abbastanza chiaramente in due parti – una struttura che ritroviamo in molte altre preghiere – ci insegna che vi sono due aspetti principali nella preghiera: la preghiera di adorazione, lode di Dio e ringraziamento nei suoi confronti, espressa nella prima parte; la preghiera che consiste nella richiesta di beni, anche materiali ma soprattutto spirituali, per noi e per il prossimo, nella seconda parte. Questa struttura ci mostra che c’è un doppio movimento nella preghiera. In una sorta di respiro cosmico, lo spirito dell’uomo si slancia verso il cielo e lo Spirito Santo scende con i suoi doni sulla terra.
Da questo punto di vista, la preghiera è ciò che tenendo la terra in comunicazione con il cielo mantiene in vita l’universo.
Vi sono dunque dei gradi nella preghiera, dalla preghiera più esteriore, che è comunque un buon inizio, verso una preghiera sempre più interiore. I Padri del Deserto, come ancora oggi i monaci più avanzati nella via di Cristo, chiusa la porta della loro camera – la porta della loro cella, ma anche le porte dei sensi, cioè le porte di quella camera che è l’anima – giungevano a una forma di preghiera che chiamavano “preghiera pura”. In questo stato tutte le immagini sono allontanate, non solo le immagini portate dai sensi, ma anche le immagini mentali, tutti i pensieri, perché l’anima ha posto soltanto per Dio: non il pensiero di Dio, ma Dio stesso.
Una forma di preghiera interiore molto praticata nell’Ortodossia, che è una delle vie che portano alla preghiera pura, è la “preghiera del cuore”. San Paolo nella Prima lettera ai Tessalonicesi (5, 17) scrive: “pregate ininterrottamente”. Potrebbe sembrare che questa prescrizione superi le possibilità umane. Com’è possibile, tra le necessità del mondo, pregare ininterrottamente? Non la Scrittura, ma la Tradizione apostolica non scritta ha risposto a questa a domanda insegnando per generazioni, fino ad oggi, che è possibile, e i monaci esicasti lo hanno confermato nella pratica, attraverso la ripetizione interiore incessante dell’invocazione “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me” (o di formule simili riprese da Matteo 20, 31; Marco 10, 48; Luca 18, 39, dove però invece che “Figlio di Dio” c’è “Figlio di Davide”). Dopo un lungo esercizio questa invocazione diventa naturale come il respiro e continua incessantemente anche durante le attività quotidiane. A questo scopo si utilizza una corda, in genere di lana, con molti nodi (komboschini in greco, tschotki o vervitsa in russo, brojanica in serbo, metanii in romeno), da sgranare, un nodo per ogni invocazione. Anche le formule della preghiera del cuore sono suddivise in due parti: la prima di lode (“Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio”) e la seconda di richiesta (“abbi pietà di me”), e non è un caso che essa possa diventare naturale come il respiro e che gli esicasti la sincronizzino con il respiro facendo corrispondere alle due parti dell’invocazione l’inspirazione e l’espirazione. Questa meta è raggiungibile solo da chi ha scelto la vita monastica, o conduce una vita molto simile a quella dei monaci, ma anche il semplice fedele, come molti di noi sanno, può ricavare grandi benefici da una pratica seppure parziale e discontinua di questa disciplina. Sull’argomento consiglio a chi non l’ha ancora fatto di leggere il bellissimo libro Racconti del pellegrino russo.
La preghiera del cuore non può in ogni caso sostituire la partecipazione alla liturgia e ai sacramenti, né vanno trascurate, secondo le proprie possibilità, le preghiere del mattino e della sera. Il patrimonio di preghiere della Chiesa Ortodossa è immenso, e anche il laico può farsi un proprio piccolo ufficio in analogia agli uffici delle ore del giorno monastici. (Suggerisco a questo proposito la lettura del libro del padre Gabriel Bunge Vasi d’argilla. La prassi della preghiera personale secondo la tradizione dei santi padri, Magnano, Qiqajon, 1996).
I filosofi antichi dicevano che ciò che distingue l’uomo dagli altri animali è l’intelletto e che l’uomo è pienamente realizzato in quanto uomo quando usa l’intelletto e non solo il proprio corpo o le facoltà psichiche più basse, che anche gli animali in qualche misura possiedono. Possiamo completare il loro pensiero dicendo che la preghiera è il più alto uso che possiamo fare dell’intelletto e che l’uomo veramente realizzato è colui che attraverso la preghiera pura è diventato “teoforo”: portatore, in sé, di Dio.
Renato Giovannoli