Comunità Ortodossa

Non si può essere qualcosa di più di un cristiano: una conversazione con padre Gabriel Bunge

P. Gabriel (Bunge) è nato nel 1940 a Colonia, in Germania, da padre luterano e madre cattolica. All’età di ventidue anni è entrato nell’Ordine benedettino in Francia, è stato ordinato sacerdote nel 1972. Ha dedicato molti anni allo studio delle opere di Evagrio Pontico. Dal 1980 ha vissuto nello skit (eremo) della Santa Croce nel cantone svizzero del Ticino, dove segue l’antica regola di San Benedetto. È stato ricevuto nella Chiesa ortodossa nel 2010.

I suoi libri includono: Vasi di argilla: la pratica della preghiera personale secondo la tradizione patristica, Lo spirito consolatore. Il significato dell’iconografia della santa Trinità dalle catacombe a Rublev, Vino dei draghi e pane degli angeli. L’insegnamento di Evagrio Pontico sull’ira e la mitezza e Akèdia: il male oscuro.

Padre Gabriel, la sua vita è cambiata da quando è diventato ortodosso?

Certo, è cambiata molto, anche in modo sostanziale. Come ho già detto diverse volte, raccontando la mia storia personale, ho fatto la conoscenza dell’Ortodossia, in origine con la Chiesa greca, all’età di 21 anni, nel 1961. È nel 2010 che sono diventato ortodosso. Conoscevo molto bene le Chiese ortodosse – tra cui la Chiesa russa – ma dall’esterno, che non è la stessa cosa. Avevo conosciuto l’Ortodossia a parte il fatto essenziale della comunione sacramentale, che mi era sempre mancata, e che alla fine è diventata il motivo principale per cui ho fatto questo passo. Perché molti mi hanno detto: “Ma la comunione spirituale non era abbastanza per lei?” In effetti, non lo era. In ultima analisi, questa non era abbastanza per me.

Così, si può arrivare a conoscere qualcosa bene, in modo fine, dall’esterno. Anche se le relazioni che ho avuto con gli ortodossi erano già eccellenti, partecipare alla vita interna della Chiesa è tutta un’altra cosa. E per me, dal momento che sono un monaco, questo ha avuto effetto su di me anche al livello del monachesimo. Oggi posso confrontarmi in modo del tutto diverso con i miei fratelli, di quanto potevo quando mi trovavo su una soglia alta, per così dire, ma non ero un membro a pieno titolo della Chiesa.

Oggi ho le mie perplessità e le mie domande. Sono vecchio, e tutti mi fanno domande – voi compresi. Ma io a chi posso fare domande? È difficile. Spero che questo non sembri indiscreto, ma io ho avuto perplessità sulla mia vita come schema-monaco. Ora posso andare – e sono andato – in tutta semplicità alla Lavra della Trinità e di san Sergio e fare un lungo colloquio con lo starets Ilya [Reyzmir] – che è circa della mia età, solo un po’ più giovane. E lui mi ha dato la risposta che avrei potuto dare a qualcun altro, ma che non ho il diritto di dare a me stesso. Si deve chiedere. Ciò non sarebbe stato possibile prima. Vedete, i cambiamenti sono stati sostanziali. Questo è stato un esempio, potrei farne molti altri.

Si ricorda i suoi primi libri di patristica?

Recentemente, con l’aiuto del mio amico – un benedettino a Chevetogne e mio successore come bibliotecario, il nostro comune amico, padre Antoine – ho ricostituito la mia prima biblioteca patristica, perché avevo perso un pezzo o un altro. Era stata infatti la scoperta di questa letteratura che aveva originariamente formato nel mio spirito l’immagine di un monaco. Quando ho voluto diventare un monaco, ho fatto prima una ricerca letteraria, perché a Colonia, dove sono nato, non c’era alcun monastero benedettino, o di tipo classico, se volete. Gli altri ordini che esistevano non erano, ai miei occhi (e di fatto) monaci: erano fratelli.

La mia prima biblioteca consisteva in una piccola selezione dei detti dei Padri del deserto – un minuscolo Paterikon. Non c’era nulla come le edizioni di grandi dimensioni che ci sono oggi in Occidente. (Qui avete sempre avuto esempi di Paterikon.) Poi due discorsi di San Giovanni Cassiano sulla preghiera, poi una piccola Filocalia – o, più precisamente, estratti tradotti dal francese. C’era anche La vita e gli insegnamenti degli Startsi [Leben und Lehre der Starzen] di Igor Smolich, uno studioso emigrato che vive in Occidente, che ha scritto alcune cose molto importanti sul monachesimo russo, cose di cui sono venuto a conoscenza in questo modo. E, soprattutto, vi erano I racconti di un pellegrino russo nella prima edizione tedesca che risale al 1920. Aveva solo i primi quattro racconti – dato che questo libro è costituito da più parti; oggi è uno spesso volume. Oggi finalmente sappiamo anche chi è l’autore: lo ieromonaco Arsenij (Troepolskij). È stato con l’aiuto di questa letteratura che si è formata nel mio spirito l’immagine del monaco.

Subito dopo aver letto I racconti di un pellegrino, ho iniziato a praticare la preghiera di Gesù – a piedi, come ha fatto lui, perché andavo da casa mia all’università attraverso un parco. Non avevo mai visto prima una corda da preghiera, ma ho imparato a usarne una molto prima di entrare in monastero e anche molto tempo prima di visitare l’Oriente. Quando ho fatto questo viaggio – ero allora uno studente di 21 anni – ho scoperto nella persona di un vecchio pro-igumeno, un abate, padre Serafino, l’icona vivente di un monaco. Cioè, prima c’è stata una scoperta letteraria, e poi c’è stata la realtà. Una figura molto bella – non sapevo che fosse un gheronda o uno starets. Ecco come tutto è iniziato.

Chi è un vero monaco?

A mio avviso, l’ideale di un monaco si incarna nella figura dell’abba. I primi padri del deserto erano figure carismatiche, se volete. Si deve prima aggiungere che “padre spirituale”, “abba” e “starets” o “gheron” – questi sono tutti la stessa cosa. Oggi si distingue talvolta tra questi tre aspetti, ma in realtà un anziano (gheron o starets) è un padre spirituale, che per rispetto si chiama abba.

Video intervista in francese (sottotitoli in russo)

Queste erano figure piuttosto sorprendenti e si può dire che ciascuno incarna l’essenza del monachesimo, ma ognuno a modo suo: non ne esistono due identici. Proprio come più tardi con gli startsi qui in Russia – dei quali ce ne sono stati molti, fino ai giorni nostri – che hanno sempre avuto qualcosa in comune e contemporaneamente sono stati completamente diversi l’uno dall’altro. Ogni incarna, a suo modo, l’essenza del monachesimo, e quindi le sue virtù essenziali. Queste virtù essenziali sono l’umiltà, la dolcezza, l’amore per il prossimo, e la preghiera incessante. Sono simultaneamente in comunione pepetua con Dio attraverso la preghiera e in comunione con i loro vicini. Per parafrasare le parole di Evagrio: “Separato da tutto e unito con tutti.” Questo è l’obiettivo. Ognuno incarna questo obiettivo a modo suo. Non li si può imitare. Ogni santo incarna a suo modo il cristiano.

Come ha fatto a capire che aveva una vocazione?

Di fatto è stato molto semplice. Non hai bisogno di alcun terremoto o di altri eventi cosmici. Non conoscevo a quel tempo la vita di sant’Antonio, ma poi ho saputo che aveva ricevuto la sua chiamata nello stesso modo. Ero un ragazzo quando sono andato in chiesa una domenica, e leggevano il Vangelo del giovane ricco [cfr. Matteo 1916-1930, Marco 10:17-31, Luca 18:18-30]. Ho subito capito che questo giovane ricco, quel giorno, ero io. Questa non era una parola rivolta a tutta l’umanità: questa è una chiamata che Cristo, quando lo desidera, indirizza a una persona specifica.

Cristo ha chiamato i suoi discepoli singolarmente. Non ha fatto questo appello alla folla, ma ha sempre scelto due fratelli, e poi altri due fratelli: seguitemi. È stata la stessa cosa con questo famoso giovane, che non voleva rispondere. Ho capito che questo ero io, ora, e che dovevo rispondere e, inoltre, che la risposta non poteva che essere “sì”. Curiosamente, ero certo al tempo stesso che questo “sì” significava che avrei dovuto diventare un monaco, anche se non avevo mai visto un monaco. Avevo letto alcuni Padri, ma non ero ancora stato in Grecia.

In seguito ho cominciato a cercare il modo per realizzare questa chiamata. In Occidente non era così facile. Nel mondo ortodosso non c’è che il monachesimo, mentre in Occidente esiste un’infinità di ordini e di istituzioni, e ognuno di questi ha le proprie specificità, e quindi uno deve scegliere tra tutti questi. La scelta di un ordine vuol dire non fare ciò che stanno facendo gli altri ordini. Alla fine ho deciso – o Dio mi ha guidato – di scegliere il più antico ordine in Occidente: l’ordine benedettino, le cui radici risalgono all’indivisa Chiesa cristiana del VII secolo, a un grande santo della nostra Chiesa. Vedete, è stato tutto molto semplice.

Ognuno è chiamato a modo suo. Dio chiama tutti in modo personale, perché egli solo conosce il cuore dell’uomo. Egli solo ha creato il cuore umano, e solo lui lo può conoscere, come è detto nella Scrittura e nei Padri. Quindi uno è chiamato alla vita coniugale, e un altro alla vita sacerdotale del servizio di un prete nel mondo, un altro alla vita monastica e, a volte, come nel mio caso, in seguito anche alla vita eremitica. Perché, come sapete, per 32 anni ho vissuto da eremita nelle montagne del Ticino in Svizzera.

Ricordo molto bene che, quando ho preso la decisione di partire per l’eremo, uno dei più anziani monaci, il fondatore di Chevetogne, Dom Lambert Beauduin, mi ha detto: “Io ti capisco: questa è una seconda vocazione” Perché egli stesso aveva ricevuto una seconda vocazione. Era stato un monaco di Maredsous, uno dei principali monasteri in Belgio per molti anni, ma più tardi, quando è stato fondato Amay / Chevetogne, ha avuto questa vocazione. È stato molto rischioso: lasciare una grande, potente, ricca abbazia e lanciarsi in questa avventura, perché nessuno in realtà poteva prevedere se si sarebbe conclusa con un successo o con un fallimento. In un primo momento – era negli anni ‘20 – la gente lo guardava un po’ storto, perché sembrava bizzarro ciò che questo monaco voleva realizzare: costruire un ponte tra Oriente e Occidente. Ma è stato un successo, come vedete. Essi esistono ancora e offrono i loro servizi in modo molto disinteressato. Ma per me questo non era sufficiente alla fine.

Qual è la differenza tra la vita monastica in Russia e in Europa?

È molto difficile dare una risposta, perché tutto è in continua evoluzione, tutto è in movimento. Il monachesimo ortodosso e quello cattolico condividono radici comuni, ma si sono evoluti in modo diverso negli ultimi 1700 anni. All’inizio erano molto vicini: c’era intercomunione durante il primo millennio e uno poteva passare da un monastero all’altro. Probabilmente sapete che i benedettini, gli amalfitani, furono tra i fondatori del Monte Athos. Così è stato possibile coesistere. Ma più tardi, alla fine del primo millennio, il monachesimo occidentale ha preso una direzione diversa, ma ora questa è una questione di storia. E l’evoluzione è continuata in Occidente – come pure in Oriente.

In Russia, per parlare del monachesimo russo, c’è stata questa rottura istituzionale – è così che ho capito, in sostanza – con la soppressione pratica dell’istituzione del monachesimo e la distruzione completa dei monasteri. Ma a mio parere – e qui non sono d’accordo con i miei fratelli in Russia, che vedono le cose in altro modo – non vi era alcuna interruzione a livello spirituale. Poiché nella persona degli anziani, l’essenza del monachesimo era sempre stata presente ed è stata in effetti trasmessa. Non è avvenuta la stessa cosa in Occidente: durante la Rivoluzione francese ci fu veramente una rottura completa. I vecchi monaci dei monasteri antichi non entrarono nei nuovi monasteri, che erano stati fondati da preti secolari, non da monaci. Questo era un monachesimo restaurato.

Personalmente credo che i monaci di oggi in Russia farebbero molto meglio a concentrarsi sugli elementi di continuità spirituale, piuttosto che sull’aspetto di rottura istituzionale. Poiché l’aspetto istituzionale è umano, mentre il lato spirituale è divino – è lo Spirito Santo. Conosco un po’ la storia del monachesimo in Oriente e in Occidente e ciò che è sempre stato di particolare interesse per me è il modo – molto diverso in Oriente e Occidente – in cui si è ripresa la vita monastica dopo un periodo di decadenza. È inevitabile che ci sia decadenza, le cose non rimangono mai allo stesso livello.

Allora, che cosa si fa? In Occidente, si fanno riforme, riforme monastiche. Ma le riforme sono messe in atto dall’alto – questa è riforma istituzionale. La disciplina nei monasteri è ripristinata o applicata più severamente. Per esempio, i cistercensi volevano riformare l’Ordine benedettino, applicando la regola di San Benedetto alla lettera, ma questo non durò molto a lungo. Diventarono tanto decadenti, per così dire, quanto i benedettini. I trappisti sono una riforma dei cistercensi, una riforma della riforma. Bene. Ma anche questo non durò in eterno.

Sono molto scettico su tutte le iniziative di riforma della Chiesa all’interno, perché si rimane a livello istituzionale. E credo – questa è la mia personale convinzione – che l’uomo ha il diritto di riformare solo ciò che egli stesso ha formato. Guardate le riforme, istituzionali, costituzionali, militari, monetarie, quelle che volete – queste sono riforme delle istituzioni umane. Così l’uomo può modificarle quando necessario. Ma la vita spirituale non può essere riformata. Si possono solo fare o creare – e questo è il compito della gerarchia, dei vescovi e patriarchi – condizioni favorevoli in modo che lo Spirito Santo possa, attraverso buoni monaci, rinnovare il monachesimo dall’interno.

Si può citare l’esempio della rinascita del monachesimo russo guidato da san Paissio (Velichkovskij), ma non c’è bisogno di andare tanto indietro. Possiamo guardare alla Grecia: il Monte Athos nella prima metà del XX secolo era in declino verso lo zero. Ciò era dovuto a circostanze esterne, c’era anche l’eredità della turcocrazia. I monasteri erano impoveriti, i fratelli non vivevano più in comunità, e tutti i più grandi monasteri erano diventati idiorritmici. Così la disciplina era al suo livello più basso. Non erano necessariamente monaci molto cattivi, ma ciò non era secondo i canoni. Poi è arrivata l’espulsione catastrofica della popolazione greca dall’Asia Minore negli anni ‘20, e i grandi monasteri non avevano più le loro zone di reclutamento, perché tradizionalmente i grandi monasteri ricevevano vocazioni da diverse parti dell’Asia Minore. Là c’era stata una popolazione greca molto forte – nel Ponto, a Smirne. Quindi, ci fu il declino.

Sono abbastanza vecchio per ricordare che vi furono calcoli statistici realizzati in Occidente per indicare la data in cui sarebbe morto l’ultimo monaco. Ma questi signori non sapevano che in segreto, negli eremi, il rinnovo era già in corso. Poiché il rinnovo non è venuto dai grandi monasteri, ma dai eremi. Possiamo citare un nome che è molto conosciuto qui in Russia: Giuseppe l’Esicasta, che ha riposato nel Signore nel 1950, insieme a molti altri che non sono altrettanto noti. Ma da questa piccola comunità, che viveva veramente in caverne come i primi padri esicasti, quattro grandi monasteri sono stati rinnovati dall’interno – non vi fu alcuna riforma o intervento massiccio dall’esterno. Poi a poco a poco, per convinzione, tutti i monasteri sono tornati alla vita comune. La vita idiorritmica alla fine non è più esistita. Tutto questo è stato fatto senza alcun intervento. E vorrei sperare che la gerarchia, perché questo è il loro dovere, creerà condizioni favorevoli.

Una di queste condizioni, come sull’Athos, è la libera elezione degli abati. Ora non è così, in Romania o in Russia. Naturalmente, questo non è sempre possibile. A volte un monastero si trova in una situazione in cui non ci sono persone qualificate. Allora il vescovo, la gerarchia, deve intervenire. A questo proposito, l’esempio del rinascimento nell’era di san Paissio (Velichkovsky) è molto significativo. La figura chiave qui era il Metropolita Gabriele (Petrov) di San Pietroburgo. Era un vescovo nominato dalla corte, ma anche un asceta – anche se ciò non era visibile. Il suo attendente di cella era l’anziano Teofane, che era stato discepolo di san Paissio (Velichkovksy), ed era stato in Moldova, in quanto non era più possibile vivere come un buon monaco in Russia dopo le riforme di Pietro il Grande e Caterina. I monasteri erano diventati case per vecchi soldati, più o meno. Così, quando, per esempio, fu necessario per rinnovare la vita a Valaam, il metropolita chiese a Teofane: “Chi possiamo inviare come abate?” Perché non si sarebbe potuto fare un abate sul posto. Quest’ultimo rispose: “Dobbiamo inviare Nazario. È un monaco analfabeta, ma un grande monaco.” E di fatto questo Nazario rinnovò completamente quell’antico, grande monastero.

Se desiderate rinnovare la vita spirituale in un monastero, prendete un monaco eccellente – magari sconosciuto, ma che sia noto per avere carisma spirituale. Solo il vescovo può farlo. Il suo ruolo è sussidiario, per così dire. Il monachesimo può essere ravvivato dall’interno – è stato così migliaia di volte. Si tratta di un’antica “istituzione” nella Chiesa. Si può rinnovare dall’interno, ma gli si deve permettere di farlo. Un monastero non deve trasformarsi in una cava da cui i più capaci sono estratti come vescovi. Ma il suo ruolo è molto importante. Non c’è concorrenza, non c’è opposizione tra i monaci e la gerarchia. E molto spesso, come ho già detto, senza l’intervento di un vescovo, forse i monaci stessi non sarebbero in grado di raggiungere questo obiettivo. Questo accade. E poi, in seguito alla nomina di un abate o badessa che sia un buon esempio monastico, il monastero rapidamente rivivere sulla base delle proprie risorse, che erano sempre state presenti.

Come si possono equilibrare preghiera e obbedienze?

Ho sempre fatto questa domanda a monaci e monache durante i miei viaggi. Ho avuto diversi colloqui con comunità femminili. Ci siamo riuniti nel refettorio, e le monache mi hanno fatto domande. Ho potuto vedere bene quale fosse il loro problema. Ma credo che questo sia un falso problema, o un falso antagonismo, per così dire. La cosa più importante nella vita monastica è la vita monastica. Ciò significa che i monaci e le monache devono capire in cosa consiste la loro vita, quali sono le regole, quale è lo scopo, quali sono le tappe, e quali sono le difficoltà – ce ne sono di tutti i tipi. È un processo, un processo progressivo.

Quando un monaco o una monaca non sa queste cose, possono scoraggiarsi molto presto, perché sono sopraffatti dal lavoro e dalle obbedienze e non vedono l’obiettivo più grande. A questo punto vorrei dire che è dovere del padre spirituale, degli anziani veri – e che Dio ci conceda di avere sempre questi veri anziani, e non quelli falsi! – rivolgersi a un monaco o una monaca che dice, “non ce la faccio più, perché ho solo 24 ore in un giorno e posso solo eseguire la mia obbedienza oppure dire la mia regola di preghiera”. Allora bisogna dire “bene” e tornare all’essenziale, perché l’obiettivo della vita monastica, come disse san Giovanni Cassiano, è la purezza del cuore – tutto il lavoro ascetico, l’obbedienza, l’umiltà e sono necessari per la realizzazione di questo. E poi c’è la preghiera incessante, l’incessante contatto con Dio, la capacità di tenere sempre il pensiero di Dio nel proprio spirito – di “respirare il nome di Cristo”, come dice sant’Antonio nella sua vita.

Iniziando a un certo momento, non è la quantità di preghiera (o di preghiere), ma la loro qualità che conta. Lo scopo della vita monastica non è di dire tonnellate di preghiera. Naturalmente, in una comunità cenobitica i servizi divini sono essenziali – inoltre, i monaci non li servono solo per se stessi, ma tutta la Chiesa partecipa in loro. Ma non è facendo tonnellate di preghiera che si prega, si deve tenere a mente la qualità della preghiera. La qualità della preghiera significa quell’umile confessione del pubblicano nel tempio. Il fariseo ha fatto tonnellate di cose: il digiuno, l’elemosina, la preghiera, e Dio sa cos’altro. Egli stesso ha fatto una lista delle sue gesta, dei suoi podvig (sforzi ascetici)! Ma non era gradito a Dio, perché il suo cuore non era umile; era convinto che sarebbe stato salvato dalle sue opere. Per quanto riguarda la qualità, il pubblicano non aveva assolutamente nulla, se non la preghiera. Un cuore contrito e umiliato (Salmo 50) – questo è ciò che Dio vuole, questo è ciò che piace a Dio. Questo non può essere raggiunto in una sola volta o al proprio primo tentativo, ma è l’obiettivo di tutta la nostra lotta ascetica.

In definitiva, la vita spirituale diventa molto, molto semplice. Quando lo spirito è costantemente collegato con Dio, nel ricordo di Dio, allora possiamo fare tutto ciò che ci è richiesto, tutto ciò che la nostra forza ci permette di fare. Il cuore è a riposo.

Che cosa le chiedono più spesso i laici, e che consigli dà loro?

Di fatto, i laici arrivano all’eremo con più o meno le stesse domande dei monaci: vengono con domande sulla vita spirituale, su come vivere una piena vita cristiana mentre sono circondati dal rumore del mondo. Io do loro gli stessi consigli che do ai monaci, ma la regola che do a ogni persona è adatta alle loro condizioni di vita. Non posso dare a un giovane uomo sposato con quattro figli, la stessa regola che darei a un uomo più anziano che vive da solo. La stessa cosa è per quanto riguarda una madre di famiglia.

Perché, vedete, non ci sono due spiritualità diverse. Non si può essere qualcosa di più di un cristiano. Un monaco non è più di un cristiano. Cerca di diventare un cristiano, con i mezzi che i Santi Padri hanno messo nelle nostre mani. Quindi posso dare gli stessi consigli che do ai monaci, ma sempre adattati alle circostanze della propria vita, la propria età, e pure la propria età spirituale.

Ci sono molti cristiani che vivono nel mondo, come per esempio madri di famiglia, che conducono una vita di preghiera molto intensa. Ma quando nasce un primo figlio, e poi un secondo e un terzo, certe cose diventano molto difficili. Per chi aveva l’abitudine di leggere un certo numero di acatisti, ora, con tutte queste piccole persone rumorose ai suoi piedi, non è più così facile. Quindi ha bisogno di scegliere i momenti giusti nel corso della giornata.

Padre Gabriel, si sente spesso dire che le opere dei Santi Padri sono state scritte per persone vissute secoli fa …

Ma l’uomo rimane lo stesso. Anche le tentazioni rimangono le stesse. L’obiettivo della vita cristiana rimane lo stesso. Gli avversari, i demoni, rimangono gli stessi. E sono i più grandi ecumenisti: essi non fanno distinzione tra confessioni, tormentando tutti i cristiani a prescindere dalla chiesa a cui appartengono. Personalmente, ho l’abitudine di dare per prima cosa a tutti alcuni testi di base, come il Paterikon – i detti dei Padri del deserto – perché questo è il Vangelo così come vissuto nel deserto. Questo è comprensibile a chiunque. Consiglio anche libri simili di questo genere. In una certa misura questo è il mio bagaglio personale che – grazie a Dio! – è stato messo nelle mie mani sin dall’inizio. Perché se ottenete un gusto per l’essenziale e l’autentico (e questi libri sono i più antichi che abbiamo), poi potete leggere tutto quello che volete, come per esempio un libro scritto oggi. Perché allora il vostro palato, la vostra bocca, sarà in grado di distinguere tra il reale e il falso. In primo luogo abbiamo bisogno di affinare il palato, il gusto. E qui è il Vangelo e i testi fondamentali del monachesimo – o di ciò che chiamiamo la vita spirituale – perché nelle Scritture, nel Vangelo e in San Paolo, abbiamo i principi della vita cristiana. Ma nei Santi Padri (sto parlando dei padri spirituali ora, non dei grandi teologi) si vede come questo è stato messo in pratica.

Pertanto, le vite dei santi, che sono state sempre molto lette in Russia, sono eccellenti, perché si può vedere come il Vangelo è vissuto concretamente. Non si può imitarle, ma si può vedere come tutto questo è stato possibile in una circostanza o in un’altra. Mi piace molto leggere le vite dei santi, comprese le vite dei santi recenti. E mi dico sempre: se qualcuno è stato in grado di resistere fino alla fine nelle condizioni intollerabili dei campi di prigionia, allora, nelle mie condizioni veramente favorevoli, devo anch’io essere in grado di farlo – anche se non posso imitarlo in quel modo.

Un’ultima domanda: quante lingue conosce?

Ho imparato l’inglese a scuola e l’ho parlato fin da bambino, poi ho vissuto in Belgio per diciassette anni, e parlo francese. Vivo da 32 anni nella Svizzera italiana, e parlo italiano. Quindi queste quattro lingue, includendo il mio tedesco nativo. Parlo un po’ di  altre lingue – ma, ahimè, troppo poco russo, che ho imparato quando ero giovane in monastero. Ho studiato la grammatica dieci volte, ma a causa delle altre lingue tutto resta un po’ confuso nella mia testa. Avrei bisogno di vivere nel paese per far rivivere tutto ciò che è nella mia testa, ma sapete che è difficile mettere qualcosa di nuovo in una testa vecchia. La gente lo parla molto velocemente, e senza prestare attenzione al fatto che il mio vocabolario è limitato al linguaggio ecclesiastico e liturgico. Ma quando si parla di vita quotidiana – senza parlare della letteratura – mi sono già perduto.

Intervista del 14 dicembre 2012

fonte: www.ortodossiatorino.net

Bogdan Constantin

Bogdan Constantin